Lo scandalo Facebook e il cortocircuito dell’ironia

Qualche giorno fa La Stampa mi ha chiesto cosa pensavo dello “scandalo Facebook” e dell’eventualità che il social network dei social network potesse chiudere. Il risultato è stato un articolo dall’intento un po’ parodico intitolato Vivere (online) dopo Facebook. Dando per scontato che l’eventualità mi sembra alquanto remota, la sola ipotesi di un social in meno da monitorare mi ha dato un’utopica speranza nei confronti del futuro.

Speranza che non nutro nei confronti dell’utenza di Facebook, né nell’umanità in generale, di cui l’utenza di Facebook non è altro che la versione digitalizzata e quindi amplificata. Non nutro speranza nella democraticità delle riunioni di condominio, ne’ nell’umanità delle persone alle Poste. Così come non nutro speranza nei commentatori selvaggi da social network che hanno detto la loro sull’articolo nella versione pubblicata con un altro titolo su Il Secolo XIX (E se Facebook chiudesse davvero? Guida per sopravvivere al “day after”), senza comprenderne l’ironia di fondo.

La prima cosa che ho pensato è di tentare di spiegare ai commentatori il senso dello scritto. Poi però conscia dei miei limiti, di tempo e di pazienza, ho deciso di tentare di argomentare il mio pensiero in un canale a visibilità più “selezionata” nel tentativo di rispondere secondo cui nell’articolo “Non si capisce dove si voglia andare a parare.”

La ragione principale è che non mi ha mai fatto impazzire la scrittura didascalica e autoesplicativa. Ho sempre creduto nel potere del testo di dare suggestioni e non spiegazioni. Capisco però che alcuni temi necessitino approfondimento, quindi ci tengo a chiarire meglio cosa penso dello Scandalo Facebook.

Usando i servizi online condividiamo spontaneamente i nostri dati

Lo scandalo Facebook è la conseguenza di un’indagine sull’uso dei dati degli utenti fatto da Cambridge Analytica al fine di orientare il voto degli utenti durante le elezioni americane. Si tratta di un uso estremo di data mining e data analytics; le tecniche che sottendono quell’uso sono però lo standard della gestione dei dati degli utenti. Sono il business su cui si basano tutte le new media company. Da Amazon a Google a Facebook. E    di   questo   dobbiamo   essere   consapevoli!

I pubblici connessi migrano di piattaforma in piattaforma

Se una piattaforma tradisce i suoi utenti, gli utenti tradiscono la piattaforma. È successo più volte nella storia dei social network. Un esempio su tutti: l’antenato di Facebook, Friendster, quando ha cominciato a cancellare i profili degli utenti fake, è stato abbandonato in favore di MySpace.

I giovani non sono su Facebook

Le generazioni attualmente composte da adolescenti non usano Facebook in modo attivo perché in quel canale sono presenti gli adulti, e gli adolescenti cercano nei social media spazi di interazione per stare con i propri pari.

L’ironia salverà il mondo (?)

Oltre a tutto ciò, un meta-commento. Spesso faccio uso dell’ironia o dell’esasperazione parodica. Dentro e fuori Facebook. A volte penso che dovrei portarmi dietro una paletta con scritto #bazinga per segnalare quando dico le cose per gioco. Ma poi tanto so che la perdo. Nell’offline la possibilità di interagire direttamente con le persone, fa sì che, se l’ironia non viene colta, la spiego. Nell’online, dove le audience sono invisibili e i contesti collassati, se i messaggi ironici arrivano ad un pubblico che non mi conosce bene spesso sono fraintesi. Cosa ha a che fare tutto ciò con data mining & Co.? Beh: se i messaggi spesso vengono interpretati in modo scorretto dagli stessi esseri umani che non hanno familiarità con il contesto in cui sono stati prodotti, l’Intelligenza Artificiale come se la cava con questo? Saprà cogliere un intento ironico? O un riferimento proprio di una specifica cultura? Farà interpretazioni talmente errate da sfalsare i dati? Oppure possiamo confidare che nei grandi numeri anche le interpretazioni sbagliate risulteranno dei singoli svarioni con poco impatto nell’analisi complessiva?

Io l’unica cosa che vi posso dire è che quando ho letto il commento “Ci sono day after peggiori… diteglielo alla docente… o che chieda ai Giapponesi!” nella mia bolla in cui le discussioni sono focalizzate sul mondo digitale ero convinta che il commentatore facesse riferimento al fatto che in altre nazioni Facebook non fosse usato (e che avesse confuso il Giappone con la Cina). Per poi realizzare che probabilmente il suo era un commento riferito alla storia, a partire dall’uso della parola “day after”, scelta dal titolista per il mio articolo. Chiamali se voi: “cortocircuiti semantici”. E auguri a te, Intelligenza Artificiale, ora sta a te sbrogliarli.

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