L’anglofilia spiegata ai pulcini

Essere filo non è necessariamente tutto rose e amori. Lo sanno bene i pulcini che crescono nella speranza di diventare galli, e poi si ritrovano capponi. Tutto dipende dal primo essere animato sui cui si getta lo sguardo nell’età formativa. Se un pulcino lo getta su un pollo, s’immagina con la cresta. Se un adolescente lo getta su un beatnik, s’immagina on the road.

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Così è nata, a quanto mi pare di ricordare, la mia anglofilia. Alla ricerca di modelli culturali m’imbatto nel libertinaggio letterario dell’america degli anni Cinquanta mediato da quella casta libertina della Nanda. Che tuttavia decido di bypassare. E allora comincio a emanciparmi dalle traduzioni culturali e mi do alla lingua originale. Fino a quando realizzo che il testo a fronte è comunque la migliore soluzione.
A traghettarmi dalla pagina letteraria alla celluloide sarà proprio la passione per l’immaginario statunitense, che dall’on the road si stabilizza nella metropoli newyorkese. Da Woody Allen a Carrie Bradshaw il volo è meno pindarico di quanto possa apparire. E frequentando il Sex nella City si rischia di imbattersi in cattive compagnie, da Felicity a Gossip Girl.
Sono quindi trascorsi dieci anni e di strada (più che altro immaginata) ne ha fatta la bimba con le sue scarpine Chicco.
Dove c’è un bambino. C’è un modello culturale. E il mio è sempre stato tutto a stelle e strisce. Dalle controculture letterarie al più commercile dei chick flick: mi era sufficiente sentire l’accento americano e io portavo a casa.
Mi sono per questo sempre considerata una spettatrice aperta alle differenze di genere, forma e colore. Basta che non abbia quel fastidioso accento british. Basta che non sia fastidiosamente lento come quelle produzioni orientali. Basta che non sia pericolosamente sudato come tutto ciò che è troppo meridionale, seppur americano. Basta che non sia fantascienze che mi pare alquanto irrealistica. Basta che non sia animazione che, no, vabbè, di quella non parliamo proprio.
Insomma, la filia per l’anglo e il realismo seriale mi ha trasformato in una tuttoilrestofoba.
Fin quando mi è stato fatto notare che, per non diventare capponi (in questo caso la castrazione si intende riferita alla componente culturale, più che fisica), i pulcini devono prendere il volo. Che spesso è meno pindalico di quanto si creda. E allora spinta dal teen sono convolata al brit di Skins. Con un balzo da Felicity sono atterrata sul sci-fi-spy di Alias.
E allora ho scoperto che la fantascienza non ha esaurito le sue potenzialità creative con Gibson (mi annoia, lo ammetto). E allora ho scoperto che la british non è solo renaissance .
Non che adesso mi senta un’aquila dei voli transmediali, ma almeno un poco più galla che polla.

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