La seguivo sui social da mesi, forse più. O meglio osservavo un gruppo di amici che chiacchieravano online, del più e del meno.
Io ero una newbie dell’internet e dei social network (dell’epoca) e tutto ciò mi sembrava meraviglioso anche se piuttosto distante.
Poi un giorno suppergiù nell’estate del 2011 mi ci sono seduta di fianco ad un incontro di gente dell’internet che piano piano cominciavo a conoscere un po’ di più.
Poi, negli anni, incrociarci sempre più spesso tra un social e l’altro; i social nel frattempo cambiavano, ma ad essere simile era quello scambio di idee e convergenze astrali tipico di chi si conosce non perché nato nelle stessa via o ha studiato negli stessi banchi ma per interessi o a volte solo modo di intendere le cose in comune.
Capita così che indipendentemente dal fatto che sia un post LinkedIn, una storia Instagram, una call di lavoro o un caffè al bar, è sempre solo una lunga conversazione che dura da giorni o da anni non lo si ricorda nemmeno più, come tipicamente fa la gente che vive onlife.
E questo è solo un altro stupido post che tiene aperto un canale qualunque per raccontare una storia uguale a molte altre e festeggiare gli 83 euro di diritti d’autore che un libro come “Vivere online” produce ogni anno. Perché tanto non di diritti vive l’autore ma più di doveri di far circolare le idee. Che sia in un blog, in un libro, in un meetup o in un remake. Perché se lo dovessi scrivere, domani, il titolo sarebbe “Vivere onlife”. Dedicato a chi si è inventato questo neologismo e a chi me lo ha fatto conoscere.
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