Ph: @gtipaldo
Trenta e quarantenni spaventati da Snapchat.
E non è più la classica demonizzazione dovuta all’associazione con pratiche devianti. Nei primi anni dal suo lancio nel 2011 Snapchat era fortemente associato al sexting, ovvero lo scambio di immagini di nudo che più facilmente ci si potrebbe fidare a condividere attraverso un canale che promette l’autodistruzione delle immagini dopo pochi secondi. Ora però vi è una paura molto più profonda. Non solo quella di Facebook che lo vede come il principale competitor nel mercato degli adolescenti, superato anche nella fruizione dei video. La paura più forte è quella degli stessi utenti dei social network: gli adulti infatti non capiscono Snapchat!
Anche i più tech-savvy, appassionati di nuove tecnologie e smaliziati navigatori della rete, si trovano di fronte ad un ambiente che in qualche modo propone un paradigma di interazione e socialità che si pone in discontinuità rispetto alla socialità online per come siamo stati abituati a concepirla negli ultimi 10 anni.
Un simile cambiamento di paradigma forse è avvenuto con l’avvento dei social network. In precedenza la socialità era basata sulla condivisione di interessi tra sconosciuti. Un appassionato di musica entra in un forum o crea un blog con un nickname che in qualche modo rispecchia i propri interessi e comincia a discutere di questi con altri utenti online.
Con i social network invece non si creano nuove comunità e nuove relazioni, ma si cementificano quelle esistenti: da un fortuito incontro offline o da un’amicizia decennale si può creare un contatto online che apre un canale attivo 24/7. Ed è così che piccoli e grandi eventi della propria vita vengono pubblicati online con l’aspettativa di ricevere like e commenti che in qualche mod ci facciano sentire vicini.
E poi Snapchat, in cui la comunicazione si attiva sempre a partire da contatti preesistenti, ma propone una modalità di interazione che incentiva la comunicazione visuale, rapidissima e senza la pretesa estetica/estetizzante di Instagram. E che è volatile.
Personalmente non condivido la visione apocalittica e un po’ disincantata di Krysti Wilkinson che identifica la volatilità di Snapchat nel rifiuto della nostra “generazione” (quale poi?) di relazioni serie. Io ci vedo di più un ritorno alla moratoria psicolosociale propria dei primi ambienti online.
Momenti della vita o ambienti sociali in cui ci si può permettere un po’ di libertà e di sperimentazione in più, grazie ad un confine che li separa dalla vita da adulti. Quel confine può essere prettamente anagrafico: quello che fai a diciott’anni non avrà ripercussioni nella tua vita da professionista; o geografico: il tuo datore di lavoro non ti verrà a rendere conto di quello che hai fatto a… diciamo: Las Vegas. Per un po’ di anni gli ambienti online hanno svolto questa stessa funzione di moratoria psicosociale. Poi è arrivato Facebook & Co e il nome anagrafico è stato indelebilmente associato a foto da adolescenti o durante feste tra amici che possono compromettere un’assunzione. E di conseguenza ecco che la nostra vita online non è più uno spazio di libertà ma il nostro strumento di personal branding: il nickname non è scelto per esprimere una passione ma per migliorare il posizionamento, il filtro su Instagram per oscurare le occhiaie da notte brava, il tagging per dare visibilità alle nostre connessioni. Un po’ come osservato da Martina Perrisi nel suo articolo su Snapchat per il Corriere, se i social network promettevano un quarto d’ora di celebrità, con Snapchat si sperimenta una ritrovata libertà. Foto con filtri buffi. Senza stelline, senza like, senza commenti, senza metriche di engagement e pure senza un contesto di riferimento, un prima e un dopo: solo visioni temporanee e low fi. Sarà forse questo a spaventare? La mancanza di una permanenza che consenta di costruire una reputazione stabile e incrementale? La mancanza di un contesto che serva ad orientare chi ha 500+ su qualunque social?
E se non fosse una questione di generazione ma di fase della vita? Magari a 17 anni la reputazione si costruisce offline con quel 5, 10, massimo 20 amici di cui si conosce quasi tutto.
E allora… non serve analizzare i contatti in comune e geolocalizzare i post per dare un senso a ciò che si legge e fornire riscontri pertinenti.
E allora… forse è solo questione di un nuovo linguaggio per vecchie funzioni: con foto sgranate di attimi privati si comunica intimità a pochi eletti e si apre un nuovo canale per il social grooming.
Tutte queste riflessioni naturalmente esulano dall’uso di Snapchat a scopo editoriale. In questo caso ho l’impressione di essere di fronte ad una deriva della narrazione trasmediale che tocca il paradosso di racchiudersi in un solo mezzo. Per dire: solo a me navigare nelle storie di Comedy Central dà la sensazione di navigare in un CD Rom su smartphone?! (ecco: l’ho detto).
Disclaimer: il post è frutto di alcune discussioni/confronti/esperimenti che hanno aggregato attorno ai propri smartphone un gruppo di over30 durante TedxUnito (e domenica successiva). Mentre Alice Lizza svelava la sindrome FOMO al pubblico di 20something, noi ci interrogavamo sull’evoluzione degli ambienti di interazione online. Superate le community di interesse. Approdati all’era dei social network. Cosa ci riserva il prossimo lustro in termini di ambienti sociali digitali?
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