E’ stata un’estate fantastica. Nel senso che ho dedicato più tempo al fantasy che all’abbronzatura. Dopo essermene privata per due decenni, ho riscoperto il genere grazie a True Blood (HBO). La collezione primavera-estate 2010 ha così visto sfilare, sul mio schermo: The Vampire Diaries (The CW), Being Human (BBC), Misfits (E4) e The Gates (ABC), con, in ordine sparso di disapparizione: fantasmi, vampiri, mutaforma, streghe, uomini invisibili, lupi mannari, donne telepatiche (e pure un poco psicopatiche). Fino all’arrivo dei succubus. E lì ho cominciato ad entrare in confusione per l’eccesso di sovrainterpretazione.
Allora, tutti siamo d’accordo che il sangue di cui si nutrono i vampiri possa diventa occasione per campagne promozionali creative e sinergie filantropiche. Ma la loro uscita dalla bara (out of the coffin) è una metafora del “comping out” (of the closet) oppure no è nemmeno una metafora, come dice il produttore esecutivo? L’intero True Bloodd è un testo antirazzista o l’espressione di politiche conservatrici e sessiste? Insomma i vampiri sono figure così duttili che non possono che stimolare la fantasia, e persino gli spot di MTV Italia per promuovere True Blood sono venuti fuori carini: sembra proprio un tentativo di promozione virale ben riuscito (se non fosse che poi non viene spreaddata online, ma solo broadcastata in Tv: meno male che non l’hanno uploadta su YouTube, se no magari qualche utente poteva appropriarsene e diffonderla #bazinga).
Nell’attesa di vedere l’adattamento italiano di True Blood, ho così cominciato a fantasticare sulla figure fantasy nei passaggio dalla Luisiana sudista al bourgeusissimo The Gates. In True Blood i vampiri sono alterità che sfidano il conservatorismo sudista, escono dalle loro bare (se non dai loro armadi) ed entrano in collusione con i membri meno rispettabili della comunità. Invece in The Gates il punto di vista è ribaltato: il poliziotto si trasferisce nella chiusissima comunità alto borghese, per poi scoprire che, dietro ad ogni staccionata bianca c’è una differente forma di perversione. Vampiri che tengono in cantina riserve di sangue per poter sopravvivere senza dare nell’occhio con azzannamenti fuori luogo. Succubus che s’impasticcano per resistere alla tentazione di privare gli amati della loro linfa vitale. Streghe che offrono del tè con effetti tossicodipendenti. Quale differenza c’è tra la sovraumanità dei vampiri che entrano in un qualunque bar della Luisiana e ordinano del sangue finto, e i vampiri che scendono le scale per dare fondo alle riserve private di emoglobina? Forse non tanta. Un piccolo spostamento della prospettiva, verso la soggettiva. Il vampiro non è più lo straniero che fa paura ma che possiamo anche amare, perchè in fondo siamo un poì freak anche noi (vedi Sookie Stackhouse aka the telepath). I freak siamo noi stessi, che nel bel mezzo della crisi adolescenziale scopriamo di dover pure impasticcarci per sedare la peggior eredità che la nostra mamma morta ci potesse lasciare: il potere di non avere il controllo delle proprie passioni tanto da rischiare di uccidere chi più amiamo (vedi Skyler Samuels aka the succubus). Così il cerchio è chiusto: dai vampiri come il Male a cui si deve sparare. A quelli con cui in fondo si può trattare in cambio di una botta di passione o di una botte di V. Fino al Male che è dentro di noi, e lo shock sta nella scoperta della nostra vampirità o succubità, o lupomannaraggine o fantasmagoria. E a questa (in)umanità non c’è altra soluzione che la medicalizzazione. (Ma adesso sì che sono confusa: se siamo tutti disumani, l’umanità chi o cosa è? E non ditemi il poliziotto).
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