La mia vita con lo schermo comincia negli anni Novanta con l’acquisto del primo tv color di famiglia. I miei genitori, diffidando della società dello spettacolo, decidono di limitare l’influenza della cattiva maestra sulla loro primogenita, selezionando accuratamente i cartoni animati concessi: Piccola Bianca Sibert e Hilary. Visto che Sibert è una foca, mi risulta più naturale l’identificazione con Hilary: la campionessa di ginnastica ritmica. Così, mentre le mie compagne di classe parlano del triangolo amoroso tra Kelly, Dylan e Brenda e si scambiano le figurine di BH, io mi iscrivo ad un corso di ginnastica artistica per emulare la mia eroina. Come ginnasta fallisco abbastanza presto e ancora di più come animale sociale: esclusa da qualunque discorso mediale per la mia scarsa familiarità con i programmi di culto adolescenziali, mi rifugio nel mondo dei libri per ragazzi Mondadori.
Gli anni del liceo vedono un’evoluzione dei miei gusti mediali dalla carta alla celluloide. In particolare apprezzo il genio di Woody Allen e imparo a memoria le sue battute sarcastiche. Ma tale sforzo cognitivo mi serve a ben poco perché l’ironia che impera tra i banchi di scuola è quella di Mai Dire Goal. Tento dunque di avvicinarmi al mondo televisivo passando dalla passione cinematografica: così incontro Dawson, l’aspirante regista, che mi introduce nell’unverso dei teen-drama. È un momento epocale per la mia formazione culturale, visto che da allora non sono più riuscita a fare a meno dei serial tv di importazione americana. Ho visto e rivisto Sex and The City, Friends, Will & Grace. Persino Settimo Cielo. Non mi son persa alcuna sit-com o drama trasmesso dalla tv nazionale. Tranne sci-fi e fantasy: ho tentato ripetutamente di guardare un’intera puntata di Buffy ma senza successo. Alla prima apparizione mostruosa cambiavo canale: un’idiosincrasia personale che ha escluso dalla mia vita persino le Streghe.
La seconda rivoluzione mediale della mia vita è datata 2003: andando a vivere da sola e avendo bisogno di compagnia, piuttosto che tra i vicini di casa, la cerco nei meandri della Rete. Il primo contratto ADSL porta con sé una scoperta esaltante: posso finalmente emanciparmi dalle politiche editoriali di Cologno Monzese e scegliere i miei futuri culti mediali nel database distribuito delle reti P2P. Drama in lingua originale disponibili praticamente in contemporanea con la messa in onda americana. Vecchie serie da collezionare e rivedere all’infinito. Opere prime introvabili dei miei registri preferiti. Un sogno che si avvera, ma con la colonna sonora americana. All’inizio la cosa mi esalta, perché spero così di perfezionare la lingua; ma poi realizzo che ciò che mi invento è molto più di ciò che comprendo. Con One Tree Hill me la cavo ancora: gli eventi salienti degli amori adolescenziali sono narrati più da baci e musiche romantiche che da voci fuori campo. Incontro invece le prime serie difficoltà affrontando sulla strada di Wisteria Lane: a tutt’oggi credo di non avere compreso, se non vagamente, che cosa si nasconde dietro il suicidio di Mary Alice. Ciò tuttavia per me ha una secondaria importanza, perché riesco a risolvere un mistero ben più contingente. Scopro infatti il significato del termine Sub Itaaggiunto in coda ai titoli dei telefilm condivisi nella rete KAdu. Sub Ita è infatti la parola chiave che mi introduce nel mondo della sottotitolazione amatoriale traducendomi il mondo del mio amore adolescenziale. Da allora i serial tv non sono stati più gli stessi perché a(ma)bilmente tradotti da un team nato e distribuito nella Rete: quello di Italian Subs Addicted. A fare la vera differenza, tuttavia, non è la traduzione linguistica, ma la mediazione culturale. Se prima sceglievo i serial da vedere consultando i palinsesti dei broadcaster americani, le riviste specialistiche e svariati portali e blog semi-amatoriali, in Italian Subs Addicted trovo degli amici mediali che visionano, commentano, selezionano e suggeriscono i migliori release stagionali. Faccio la lurker per qualche mese, poi passo all’azione: mi iscrivo al forum così da poter diventare periferica parte di una comunità con cui condividere piaceri e pareri mediali. Divento così gg_akame.
Mentre il mio essere fan solitaria si evolve in una forma di fruizione partecipata, il mio essere studentessa di Scienze della Comunicazione si evolve in (semi)professione. Intraprendo così un percorso di dottorato che prevede attività formative interne a realtà aziendali per formarmi come esperta di tv digitali. Per ben due anni lavoro al fianco di abili ingegneri e informati informatici per immaginare i futuristici usi mediali delle prossime generazioni spettatoriali. Tuttavia per non trasformare la futurologia in fantascienza propongo di affiancare all’inventiva il racconto di un’esperienza concreta. Confesso di essere una fan mediale e di non essere una specie rara. Esistono infatti gruppi di persone che hanno già creato una nuova forma televisiva molto più avanzata di quella progettata dall’industria nazionale. Oltre all’IPTV e al DTT esistono infatti televisioni distribuite tra portali e media sociali, create dagli spettatori a proprio uso e consumo, con tanta passione ed altrettanta ambizione. Propongo così di raccontare loro quali sono i motivi per cui ai fan non bastano Sky e Alice Home Tv, ma lavorano sodo per prodursi da soli un’esperienza d’intrattenimento collettiva. Approfondisco uno studio da tempo avviato sulla sociologia dei processi culturali. Individuo nel paradigma etnografico e nella letteratura sul fandom i riferimenti teorici e metodologici con cui attrezzarmi per l’impresa che da qualche tempo è ormai avviata: un’etnografia multisfaccettata e multisituata della subcultura di fan italiani di telefilm americani.
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