Ho dei seri problemi di immedesimazione. Durante la mia infanzia mi era concesso di guardare solamente due serie animate: Hilary, con protagonista una ragazza che pratica la ginnastica ritmica, e Sibert, in cui sono narrate le avventure di una foca. Fortunatamente l’identificazione con Hilary è stata più forte, così, invece di finire al circo, mi sono semplicemente iscritta ad un corso di ginnastica artistica (quella ritmica non era disponibile).
Quest’estate invece mi sono data alla serialità italiana, e, in un paio di settimane, mi sono vista entrambe le stagioni di Boris. Non so come ma, invece di identificarmi con Corinna la star, mi affeziono ad Alessandro, lo stagista schiavo.
Non avendo imparato nulla dal mio fallimento come ginnasta, decido di diventare stagista e mi metto alla ricerca di un set.
Così, mentre Flavia Vento parte per l’Honduras, io approdo nelle inesplorate lande della produzione cinematografica. Flavia ha abbandonato la sua isola dopo un paio di settimane con un “Non sono Wonder Woman e non lo sarò mai. Qui ne va della mia salute psichica”. Essendo meno Wonder Woman di Flavia Vento, non sono riuscita ad affrontare per più di un paio di giorni le 10 ore di set e la sveglia alle 5.00. Ma i danni alla mia salute psichica sono stati altri: ho visto da vicino gli ingranaggi della macchia del cinema, e tutta la sua magia è svanita. Anni e anni di sospensione della credulità sono andati in fumo. D’ora in poi non potrò più ascoltare una dichiarazione d’amore senza pensare al dialogue coach che fa fare esercizi di pronuncia alla primattrice. Non potrò più godermi una carrellata senza pensare a quanto pesa una steadicam. Non potrò più apprezzare un raggio di sole senza pensare al generatore che alimenta il faretto montato sulla parete di cartongesso.
Insomma: il trauma è stato simile a quando mi hanno rivelato che la piscina di casa Cohen è creata in studio.
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