1. Fa caldo (non esattamente sempre)
Questo ovviamente è il più importante per il suo impatto come dire… organizzativo. In Africa c’è il deserto, alcuni deserti sono caldi, altri no, ma c’è anche savana, giungla, montagne e città. E in molti di questi spazi, beh, non fa caldo. Soprattutto di notte.
La prima volta che ho dovuto affrontare la questione ero in Marocco per un trekking. Armata di tenda e dromedario ho affrontato i -10 di notte. Non è stato bello.
Sono però arrivata più preparata per la seconda esperienza africana, questa volta in quella orientale. Ad Agosto ho attraversato Uganda, Kenia e Tanzania e ho trovato, essendo inverno durante agosto dei piacevoli 20° gradi ma anche un bel freschino nel parco del createre di Ngorongoro.
2. Sono arretrati (di cosa stiamo parlando?)
L’arretratezza è un concetto relativo, che dipende dalla concezione occidentale di modernità. Rispetto all’avvento della modernità, l’Africa è arretrata. Non ha visto la rivoluzione industriale, non ha visto l’emergere degli stati moderni come li concepiamo in Europa e in Nord America. Non ha visto lo sviluppo di tutti quei settori che hanno strutturato la nostra economia.
L’Africa continua a vivere in gran parte di agricoltura e tenta di sfruttare lo spirito di beneficienza del colonialismo culturale occidentale intercettato attraverso i flussi turistici. Ha saltato l’era dei computer e anche quella delle banche. Ha sviluppato il sistema di mobile money con una rapiditò da noi inimmaginabile. Ha fatto innovazione guidata dal bisogno di sopravvivenza e dalla libertà di poterlo fare senza prima andare a decostriure le sovrastrutture che hanno fatto la ricchezza e la solidità dell’occidente moderno.
L’Africa di cui parlo è quella che ho attraversato quest’anno, l’Africa orientale, quella di nazioni non attraversate da gravi conflitti come in alcuni stati confinanti ma in cui le metropoli sono costellate di baraccopoli e le campagne non raggiunte dalle principali ehm, come diremmo noi in una nazione moderna, utilities.
3. I Masai non si fanno fotografare
Allora: chiariamo innanzitutto una cosa. Tutto ha un prezzo. Sarà anche vero che per alcune popolazioni la fotografia (il mezzo di comunicazione della modernità per eccellenza) ruba l’anima, ma è altrettanto vero che bisogna sopravvivere, con anima o senza.
Questioni commerciali a parte, i Masai che ho incrociato in Kenia sono ormai popolazioni stanziali che vivono non di allevamento ma anche di agricoltura, vendendo i prodotti sui cigli delle strade, in un flusso di banchetti tutti uguali, non avendo chiaro il concetto di concorrenza e molto più quello di comunità.
Comunità che in alcuni casi hanno lasciato per studiare e poi lavorare in città. Per poi tornare e creare un villaggio in cui ospitare volontari e turisti. Il caso di cui parlo, nello specifico, è quello di Jeff che quando ho intervistato per poter raccontare la sua storia, ha indossato le collane della sua tribù, a favore di telecamera.
4. Il mal d’Africa
“Bella l’Africa. Ma non ci vivrei.” Citazione più vera che mai. Se la si vive per turismo ci si può godere i safari e l’emozione di vedere un leone e magari quando si torna avere nostalgia dell’Africa vissuta nelle vacanze. Si può rallentare il proprio pensiero ed azione tipicamente occidentale ed orientata all’obiettivo per vivere, anche per pochi giorni, in modalità hakuna matata. Con un focus sul presente, con uno spirito ottimista. Perché di fatto non si può fare altrimenti, se non godersi il presente e ringraziare Dio per tutto quello che si ha.
Ma la sospensione di incredulità dura poco più della visione del Re Leone. E il razionalismo moderno prende il sopravvento e guarda ai dati. I dati di Paesi come l’Uganda in cui l’aspettativa di vita è di 58 anni, le persone affette da HIV sono il 7% della popolazione, e le cause coprono tutto lo spettro del processo di civilizzazione: dalla malnutrizione all’inquinamento.
5. Non è una meta per chi si occupa di innovazione
Un continente, per quella piccola parte che ho visto e che sta tra il lago Vittoria e l’Oceano Indiano, stupendo da visitare, difficilissimo da vivere, imprescindibile per chi si occupa di innovazione.
Perché qui vedi l’innovazione che nasce dai bisogni, non contaminata dalle mode. Che dà priorità al tentativo di rendere questi posti meno difficili da vivere, meno in balia di un ottimismo forzato per mancanza di alternative. Che parte dal piccolo business, e all’inizio pensa più all’impatto che può portare su poche persone che a scalare. Ma che può crescere veloce perché libero da quelle infrastrutture moderne di cui sopra.
StartUp Africa Roadtrip è nato per questo. Per scoprire l’innovazione che nasce fuori dalle tratte San Francisco – Londra (ehm…)– Berlino – Shangai. Per cambiare la direzione dello sguardo, spostarlo lungo i meridiani invece che sui paralleli e poter intercettare lo spirito dell’innovazione negli occhi di masai che se ne sono andati dal villaggio in cui sono nati per crearne uno prorio, anche ad uso di turisti che arrivano in Kenia per un safari, di imprenditrici (sì, tantissime) ugandesi che vogliono emanciparsi dal circolo vizioso della beneficienza europea e creare un circolo virtuoso di crescita locale (per poi magari, chissà, …), di runner tanzani che fanno le guide ma sognano la maratona di Berlino.
Bonus track: i dinosauri sono estinti
Ho le prove che non è così:
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