Se hai fatto check ✅ su San Francisco, Londra e New York, sei praticamente pronto per comprare un biglietto per Tel Aviv.
Appena dopo le capitali anglofone dell’innovazione, ecco che ormai da qualche anno spunta in tutte le to do list dei conoscenti un po’ più geek una tappa israeliana; meta imprescindibile per completare il tour delle Startup Nation(sss) o comunque almeno delle Startup City(sss).
Ed è così che mentre in alcune capitali dell’innovazione come Vilnius ci sono capitata per caso, questa tappa me la sono scelta con cura. Tra tutti gli Urban Creative City-break a cui potevo partecipare, come primo ho scelto Tel Aviv.
La promessa di “una formula di viaggio unica sul mercato” è stata mantenuta. Volevo quindi raccontarvi cosa mi sono portata a casa da cinque giorni di confronto con innovatori e creativi della capitale israeliana (che avrà una seconda edizione ad Aprile 2020).
Il resoconto ad onor del vero avviene un bel po’ in ritardo, ma mi ci sono volute tutte le vacanze invernali per finir di leggere il mattonazzo Startup Nation di Senor & Singer. L’investimento e l’attesa non sono però stati sprecati, perché mi è servito per sistematizzare alcune osservazioni empiriche che trovate qui sotto. Peccato si dilunghi un po’ troppo sullo storytelling a mosaico, come dicono gli autori, che io invece definirei aneddotica randomica (ndr. non allarmatevi, la recensione negativa del best seller dell’innovazione finisce qui).
Le case costano tanto
Appena sopravvissuta ad un trasloco da Torino a Milano (e ritorno), non pensavo che il mercato immobiliare mi avrebbe riservato altri traumi.
Invece il prezzo al metro quadro degli appartamenti a Tel Aviv supera di gran lunga quello del recentemente gentrificato quartiere meneghino di Isola.
Il motivo è facile da spiegare: c’è poco spazio. Se paragonato a tutti gli isrealiani che vorrebbero tornare… nella terra promessa. Che sono più dei giargiani che vorrebbero avere un appartamento nel bosco verticale.
Si stima infatti che la popolazione di Tel Aviv potrebbe raddoppiare nei prossimi 25 anni. Quindi gli urbanisti gridano all’emergenza immobiliare e lamentano la mancanza di fondi (prerogativa esclusiva del settore tech).
La Telavivizzazione di Israele
Lo sbilanciamento tra domanda (di case) e offerta (di spazio) è uno dei fattori che ha reso Tel Aviv la 9° città più cara al mondo (Fonte: The Economist, 2018). La ricchezza però si sta diffondendo e al contempo l’intera nazione si sta telavivizzando.
Metafora che rappresenta questo processo: il nuovo treno ad alta velocità Tel Aviv – Gerusalemme. Ma anche l’espansione di We Work (il coworking più discusso di tutta Wall Street) nelle principali città israeliane, che replicano il modello della municipalità di Tel Aviv.
Soldi e competenze: tutto gira attorno al militare
Quindi, in sostanza, di soldi ce ne sono tanti. Che poi è il motivo per cui proprio qui, in mezzo al deserto, senza nemmeno un’Orange County vicina, è nata una delle Startup Nation. Anzi, forse l’unica vera Startup Nation. Perché tutte le altre sono Startup City, al massimo region innovative con tanta terra attorno. Invece qui che di terra ne hanno poca, c’è la maggiore concentrazione di innovazione e imprenditorialità.
Soldi e competenze girano però grazie ad uno stesso motore: quello bellico. Durante i due – tre anni di servizio militare obbligatorio, gli Israeliani acquisiscono infatti competenze tecnologiche, per poi creare azienda tech in ambiti affini come ad esempio quello della cybersecurity.
Quel melting pot di Tel Aviv
Maggiore della ricchezza economica c’è solo quella culturale. Si contano infatti gruppi nutriti di 17 nazionalità distinte, unite però da una cultura di fondo. La maggior parte degli elementi che caratterizzano la specificità socio-culturale Israeliana hanno le radici nella cultura (e nell’esperienza) militare. E qui il cerchio si chiude. Ma prima di trarre le conclusioni, vediamo quali sono questi elementi tipici della cultura degli israeliani.
Il primo è l’unica combinazione tra ambizione personale e capacità di lavorare in team. Lezione, ben poco metaforica, appresa sul “campo di battaglia”, in cui non puoi vincere senza il tuo team.
La seconda è la cultura anti-gerarchica e meritocratica. A differenza degli Stati Uniti, in Israele non conta il ruolo ma le competenze. Sempre per questione di sopravvivenza.
Il terzo è la capacità a trasformare i problemi in asset. Un esempio? Isreale è l’unica nazione in cui il deserto sta arretrando, perché dal problema ambientale è stata sviluppata una competenza nella produzione di sistemi di irrigazione che li ha fatti diventare leader mondiali.
Il quarto è la struttura sociale estremamente densa, nuovamente come conseguenza della formazione militare che porta tutti i cittadini a frequentare per un periodo della propria vita lo stesso ambiente e dunque a rafforzare le connessioni pregresse.
Il quinto è non avere nulla da perdere. Gli israeliani sono una società di immigrati, che non guardano a ciò che hanno ma a ciò che possono avere. Si è quindi sviluppata un’alta predisposizione al rischio che manca in altri contesti come la Corea del Sud e Singapore. Queste due nazioni sono apparentemente simili per quanto riguarda le competenze tecniche e la militarizzazione, però in questi contesti manca la cultura del rischio; oppure si è persa, come nel caso coreano che non si è ancora ripreso dai fallimenti della bolla degli anni Novanta.
Insomma, Tel Aviv ci conferma che l’innovazione spesso nasce da una crisi e dal coraggio di affrontarla. Come suggerisce Shimon Peres nella citazione conclusiva di Startup Nation: “The most careful thing is to dare”. Che è la versione “stay hungry, stay foolish” israeliana.
Da qui ovviamente nasce la domanda: potremo mai innovare in Italia, il paese della Dolce Vita? Ma questa è un’altra storia. Anzi un altro film. Anzi un altro podcast.
Per chi invece è interessato ad un altro viaggio, oltre alle nuove mete ad Aprile è in programma una seconda edizione del tour di Tel Aviv (per informazioni potete scriver a luca@bellissimo.it).
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