I confini costruiscono barriere, ma infondono anche sicurezza. È per questo che ne abbiamo così bisogno.
I confini sono stati il tema della conferenza Remaking Borders, ospitata dall’Università di Catania, a cui ho partecipato questa settimana. Durante la conferenza si è parlato della caduta dei confini e della loro ricostruzione. Ma il primo valico tra frontiere l’ho esperito durante il breakfast multilinguistico, dove solo l’inglese ha reso possibile la conversazione tra una lituana, un’italiana e una slovena.
La lingua franca della contemporaneità, consente, proprio come Internet, di mettere in comunicazione culture differenti e popolazioni distanti. Ma, anche oggi che la globalità anglofona e digitale della rete definisce spazi transculturali di interazione, di borders ce ne sono ancora molti. Nel panel a cui ho partecipato, organizzato da Alessandra Micalizzi ed Elisabetta Risi dello IULM di Milano, si è parlato proprio dei confini della rete.
- Confini che sono caduti, come quelli tra il mondo fisico e quello digitale (qual è il limite tra online e offline se la comunicazione è always on e sempre più geolocalizzata dalla realtà aumentata?)
- Confini che sono collassati, come quelli tra i differenti contesti della comunicazione (cos’è pubblico e cos’è privato online?)
- Confini che vengono simbolicamente e faticosamente costruiti, come quelli delle comunità disperse nei social network (come faccio a riconoscere l’appartenenza ad un’identità di gruppo, se lo spazio di interazione è distribuito in una molteplicità di servizi?)
- Confini che sono artificialmente creati dagli “imprenditori morali” della rete, che costruiscono limiti appena sorge una nuova opportunità…
… infatti, con la mia prima password per il wi-fi ottenuta senza dover fotocopiare un documento di identità, ho potuto fare ben poco. Perché l’Università di Catania ha deciso di creare un confine, tra l’Internet buona e quella cattiva.
Ho potuto accedere al web per consultare il programma del convegno, ma non agli spazi del “cazzeggio digitale” per dire agli amici di Facebook e ai follower di Twitter cosa stavo facendo. Anzi, l’ho fatto, ma con la connessione 3G del cellulare. Sono dovuta passare attraverso la rete commerciale dell’operatore mobile, per condividere le ricerche dei mie compagni di panel nel posto in cui era più utile: ovvero tra la mia rete di conoscenti.
Il wi-fi pubblico c’era, ma era ben poco libero. Appena caduta una artificiosa barriera finalizzata all’anti-terrorismo, ecco che ne è stata costruita una anti-cazzeggio che, oltre ad essere fallace, ignora il fatto che, nei social network, tra una chiacchera e l’altra, si possa costruire conoscenza, collaborativamente.
Nei social network non c’è qualcuno che ti indottrina come nell’Aula Magna, non c’è nemmeno un’intelligenza collettiva riconosciuta (a parte che dal Tg5) come in Wikipedia, ma sono sicura di aver condiviso più conoscenza linkando post, likando status e commentando video, che in una pubblicazione scientifica internazionale con tanto di blind review.
Perché l’informazione veicolata nei social network è costruita assieme e in tempo reale con la rete (semi)professionale.
Certo: su Facebook le riflessioni scientifiche, si intrecciano ai racconti personali. Ed è sicuramente più difficile distinguere il confine tra la dimensione della relazione e quella del contenuto. Ma credo che il futuro dell’Università, non si realizzi costruendo nuove barriere artificiose e arbitrarie tra l’internet della conoscenza e quello della socialità.
Nella vostra Università o azienda, la connessione è libera o avete delle limitazioni di accesso a siti ritenuti non appropriati ad un contesto di studio et laboro?
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